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Divieto di rinnovo tacito dei contratti per servizi e forniture

Consiglio di Stato, sez. V, 16.02.2023 n. 1626

L’art. 6 della legge 24 dicembre 1993, n. 537 (come sostituito dall’art. 44 della legge 23 dicembre 1994, n. 724 ed il comma 2 è stato modificato dall’art. 23 della legge 18 aprile 2005, n. 62, poi abrogato dall’art. 256 del d.lgs. n. 163 del 2006), nel vietare il rinnovo tacito dei contratti delle pubbliche amministrazioni per la fornitura di beni e servizi, comminandone la nullità, e nel consentire (fino alla modificazione introdotta dalla citata legge n. 62 del 2005) la rinnovazione espressa in presenza di ragioni di pubblico interesse (comma 2) dispone che “E’ vietato il rinnovo tacito dei contratti per la fornitura di beni e servizi, ivi compresi quelli affidati in concessione a soggetti iscritti in appositi albi. I contratti stipulati in violazione del predetto divieto sono nulli”. In ordine al divieto di rinnovo tacito, si è precisato che tale divieto non è stato introdotto per la prima volta dall’art. 44 della legge n. 724 del 1994, “ma era già previsto dalla disposizione di cui all’art. 6 della l. n. 537/1993 che altrettanto disponeva espressamente il ‘divieto del rinnovo tacito dei contratti con le P.A. per la fornitura di beni e servizi “(Cons. Stato, sez. V, 2 ottobre 2002, n. 5116).
Lo scopo della norma è evidentemente quello di tutelare l’interesse pubblico a che le prestazioni di beni o servizi da parte degli appaltatori delle amministrazioni pubbliche non subiscano col tempo una diminuzione qualitativa a causa degli aumenti dei prezzi dei fattori della produzione, incidenti sulla percentuale di utile considerata in sede di formulazione dell’offerta, con conseguente incapacità del fornitore di far fronte compiutamente alle stesse prestazioni: è stato, pertanto, ad essa riconosciuta natura di norma imperativa alla quale si applicano gli artt. 1339 (inserzione automatica di clausole) e 1419 (nullità parziale) del codice civile (Cons. Stato, sez. V, 2 novembre 2009, n. 6709; Cons. Stato, sez. III, 1 febbraio 2012, n. 504; Cons. Stato, sez. V, 22 dicembre 2014, n. 6275; Cons. Stato, sez. V, 21 luglio 2015, n. 3594).
La disposizione è stata ritenuta espressiva di un precetto di portata generale in base al quale il rinnovo dei contratti pubblici scaduti deve essere considerato alla stregua di un contratto originario, necessitante della sottoposizione ai canoni dell’evidenza pubblica, atteso che la procrastinazione meccanica del termine originario di durata del contratto ha l’effetto di sottrarre, in maniera intollerabilmente lunga, un bene economicamente contenibile alle dinamiche fisiologiche del mercato.
Sul punto, questo Consiglio di Stato (sez. IV, sent. n. 6458 del 31 ottobre 2006) ha affermato che l’eliminazione della possibilità di provvedere al rinnovo dei contratti scaduti “ha valenza generale e portata preclusiva di opzioni ermeneutiche ed applicative di altre disposizioni dell’ordinamento che si risolvono, di fatto, nell’elusione del divieto di rinnovazione dei contratti pubblici”.
Non convince lo sforzo ermeneutico delle appellanti finalizzato a sostenere che la proroga sarebbe intervenuta per evitare l’interruzione del servizio e i danni all’utenza, tenuto conto che, come risulta dalle emergenze processuali, gli impugnati provvedimenti hanno consentito alla -OMISSIS- fino al 2016, senza il previo espletamento di alcuna procedura ad evidenza pubblica, la gestione esclusiva di tutte le strutture di approdo destinate al servizio di trasporto pubblico nella laguna veneta, con assegnazione ad un unico operatore. Come è noto, secondo la giurisprudenza prevalente, nel vigente quadro ordinamentale, è consentita solo la ‘proroga tecnica’, l’unica ammessa in materia di pubblici contratti, avente ‘carattere eccezionale’ (ex multis Cons. Stato, sez. III, 3 aprile 2017, n. 1521; Cons. Stato, sez. V, 17 gennaio 2018, n. 274), la quale deve essere fondata su ‘oggettivi e insuperabili ritardi nella conclusione della nuova gara non imputabili alla stazione appaltante’ (Cons. Stato, sez. V, 29 maggio 2019, n. 3588).
Il fondamento del divieto del rinnovo tacito si ricollega ad una molteplicità di esigenze: da un lato la norma tende anzitutto a conferire effettività al principio generale della concorrenza e della gara formale ad evidenza pubblica, quale canone fondamentale dell’attività contrattuale della P.A., contribuendo in tal modo alla dinamicità e trasparenza del mercato; dall’altro, si consente all’amministrazione di assumere obbligazioni di pagamento di somme di denaro unicamente con l’adozione di un provvedimento formale di impegno, previo il positivo riscontro delle relative disponibilità.

Divieto di rinnovo tacito dei contratti pubblici

Consiglio di Stato, sez. V, 24.03.2022 n. 2158

4.2. L’art. 1362, comma 1, cod. civ. impone di interpretare il contratto ricercando la “comune intenzione delle parti”, senza limitarsi al senso letterale delle parole; la giurisprudenza ha chiarito che il significato letterale costituisce criterio prioritario dell’operazione interpretativa cui vanno affiancati gli altri criteri (tra cui, in particolare, il criterio logico – sistematico di cui all’art. 1363 cod. civ., ma anche il criterio di interpretazione secondo buona fede evocato dall’appellante), anche se il testo dell’accordo era chiaro ma incoerente con altri indici rivelatori di una diversa volontà dei contraenti (cfr. Cass. civ., sez. 1, 2 luglio 2020, n. 13595; sez. 3, 26 luglio 2019, n. 20294; aggiungendo, peraltro, che qualora il criterio letterale risulti sufficiente a dire il risultato che le parti intendevano conseguire, l’operazione ermeneutica deve ritenersi utilmente, quanto definitivamente, conclusa, cfr. Cass. civ, sez. 3, 11 marzo 2014, n. 5595). […]
4.3. Le clausole di rinnovo contrattuale comportano una nuova negoziazione con il medesimo soggetto, che può concludersi con l’integrale conferma delle precedenti condizioni o con la modifica di alcune di esse in quanto non più attuali; se è previsto il rinnovo tacito, la conferma delle precedenti condizioni contrattuali avviene senza necessità di manifestazione di volontà; esse si distinguono delle clausole di proroga del contratto, che prevedono il mero slittamento nel tempo della sua durata (cfr. Cons. Stato, sez. II, 6 maggio 2020, n. 2860; III, 27 agosto 2018, n. 5059).
4.4. Così interpretata la clausola contrattuale ne va confermata la nullità per contrasto con l’art. 6 (Contratti pubblici) l. 24 dicembre 1993, n. 537 (Interventi correttivi di finanza pubblica) il quale sin dalla sua prima formulazione (antecedente alla stipulazione del contratto in esame) prevedeva il divieto di “rinnovo tacito dei contratti delle pubbliche amministrazioni per la fornitura di beni e servizi”, con conseguente nullità dei contratti stipulati in violazione del predetto divieto.
Il riferimento a tutti i contratti stipulati da pubbliche amministrazioni per la fornitura di beni o servizi per la sua ampiezza conduce a ritenere applicabile il divieto anche ai contratti di concessione di servizi pubblici, come è comunemente qualificato il contratto con il quale l’amministrazione affida il servizio di illuminazione votiva cimiteriale. Ciò è coerente con la ratio del divieto.
Occorre, infatti, rammentare che, contrariamente a quanto sostenuto dall’appellante, il divieto di rinnovo tacito non è giustificato solamente da esigenze di contenimento della spesa pubblica – ossia dalla necessità di consentire per legge alle amministrazioni di svincolarsi da un impegno economico divenuto nel tempo eccessivamente gravoso – ma, soprattutto, dalla volontà di favorire l’apertura del mercato alla concorrenza evitando che la rinnovazione tacita dei contratti porti a costituire rendite di posizione per certi operatori economici, con conseguente impossibilità di selezionare per quello stesso servizio un miglior contraente, sia in relazione il prezzo richiesto, ma, specialmente, per la qualità del servizio offerto.

Proroga tecnica e divieto di rinnovo tacito e automatico dei contratti della P.A. (art. 106 d.lgs. n. 50/2016)

TAR Catanzaro, 17.02.2020 n. 259

E’ necessario, ai fini del decidere, brevemente soffermarsi sulla portata applicativa del divieto di rinnovo dei contratti da parte della P.A., precetto che, coerentemente con la matrice euro-unitaria della norma, è oggetto di costante interpretazione estensiva in giurisprudenza.

Il divieto è contenuto nella L. 24 dicembre 1993, n. 537, il cui art. 6 dispone che “E’ vietato il rinnovo tacito dei contratti delle pubbliche amministrazioni per la fornitura di beni e servizi, ivi compresi quelli affidati in concessione a soggetti iscritti in appositi albi. I contratti stipulati in violazione del predetto divieto sono nulli. Il secondo periodo della norma, poi abrogato dall’art. 23 della l. 62/05, prevedeva che “Entro tre mesi dalla scadenza dei contratti, le amministrazioni accertano la sussistenza di ragioni di convenienza e di pubblico interesse per la rinnovazione dei contratti medesimi e, ove verificata detta sussistenza, comunicano al contraente la volontà di procedere alla rinnovazione”.
La disposizione è stata ritenuta espressiva di un precetto di portata generale in base al quale il rinnovo dei contratti pubblici scaduti deve essere considerato alla stregua di un contratto originario, necessitante della sottoposizione ai canoni dell’evidenza pubblica, atteso che “la procrastinazione meccanica del termine originario di durata di un contratto ha l’effetto di sottrarre in maniera intollerabilmente lunga un bene economicamente contendibile alle dinamiche fisiologiche del mercato” (T.A.R. Salerno, sez. II, 2 ottobre 2019, n. 1697).
Sul punto il Consiglio di Stato (Sez. IV, sent. n. 6458 del 31 ottobre 2006) ha affermato che l’eliminazione della possibilità di provvedere – a determinate condizioni ed entro il termine di tre mesi dalla scadenza – al rinnovo dei contratti di appalto scaduti, disposta con l’art. 23 l. n. 62 del 2005, “ha valenza generale e portata preclusiva di opzioni ermeneutiche ed applicative di altre disposizioni dell’ordinamento che si risolvono, di fatto, nell’elusione del divieto di rinnovazione dei contratti pubblici”.
Ne consegue che, in coerenza con la regola ermeneutica appena sintetizzata, non solo l’intervento normativo di cui all’art. 23 l. n. 62 del 2005 dev’essere letto ed applicato in modo da escludere ed impedire, in via generale ed incondizionata, la rinnovazione di contratti di appalto scaduti, ma anche l’esegesi di altre disposizioni dell’ordinamento, che consentirebbero, in deroga alle procedure ordinarie di affidamento degli appalti pubblici, l’affidamento, senza gara, degli stessi servizi per ulteriori periodi dev’essere condotta alla stregua del vincolante criterio che vieta (con valenza imperativa ed inderogabile) il rinnovo dei contratti (in tal senso T.A.R. Catania, sez. IV, 16 aprile 2018, n. 758).

(…)

Non convince il pur apprezzabile sforzo ermeneutico di parte ricorrente, teso ad accreditare la tesi dell’unica e predefinita durata ventennale contratto di affidamento, opzione chiaramente contrastante con l’inequivocabile tenore letterale dell’art. 3 della transazione (che prevede un affidamento “per anni 15 (quindici) i quali s’intendono automaticamente e tacitamente rinnovati per altri 5 (cinque) anni salvo contestazioni […]”).
Analogamente sprovvista della benché minima base testuale è l’affermazione di parte ricorrente secondo cui si tratterebbe, nel caso di specie, di “proroga” (e non di “rinnovo”).
Al riguardo deve osservarsi – al di là della, pur dirimente, lettera dell’art. 3 sopra riportato – che non si ravvisano, in concreto, i presupposti sostanziali dell’istituto della “proroga tecnica”, l’unica ammessa nel vigente quadro ordinamentale in materia di pubblici contratti, avente “carattere eccezionale” (ex multis, Cons. Stato, Sez. III, 3 aprile 2017, n. 1521; Cons. Stato, sez. V, 17 gennaio 2018, n. 274) e fondata su “oggettivi e insuperabili ritardi nella conclusione della nuova gara non imputabili alla Stazione appaltante” (Consiglio di Stato, sezione V, del 29 maggio 2019, n.3588).

[rif. art. 106 d.lgs. n. 50/2016]