Consiglio di Stato, sez. V, 27.09.2022 n. 8330
E’ certamente noto a questa Sezione l’indirizzo giurisprudenziale secondo cui “ai fini della valutazione di anomalia delle offerte presentate nelle gare di appalto, …non è possibile fissate una quota rigida di utile al di sotto della quale l’offerta debba considerarsi per definizione incongrua dovendosi avere riguardo alla serietà della proposta contrattuale, atteso che anche un utile apparentemente modesto può comportare un vantaggio importante” (Cons. Stato, sez. IV, 23 luglio 2012, n. 4206). Tuttavia un utile pari a zero, oppure l’offerta in perdita o scarsamente remunerativa, come quella di specie, rendono ex se inattendibile l’offerta economica (Cons. Stato, sez. V, 17 luglio 2014, n. 3805).
Va rammentato che la finalità della verifica dell’anomalia dell’offerta è quella di evitare che offerte troppo basse espongano l’amministrazione al rischio di esecuzione della prestazione in modo irregolare e qualitativamente inferiore a quella richiesta e con modalità esecutive in violazione di norme, con la conseguente concreta probabilità di far sorgere contestazioni e ricorsi.
L’amministrazione deve, infatti, aggiudicare l’appalto a soggetti che abbiano presentato offerte che, avuto riguardo alle caratteristiche specifiche della prestazione richiesta, risultino complessivamente proporzionate sotto il profilo economico all’insieme dei costi, rischi ed oneri che l’esecuzione della prestazione comporta a carico dell’appaltatore con l’aggiunta del normale utile di impresa, affinchè la stessa possa rimanere sul mercato.
Pertanto, se è vero che la giurisprudenza amministrativa è orientata in prevalenza nel senso di ritenere che un utile di impresa esiguo non denota di per sé l’inaffidabilità dell’offerta economica, è altrettanto vero che, secondo l’opinione generale, l’utile non può ridursi ad una cifra meramente simbolica.
Gli appalti devono essere affidati ad un prezzo che consenta un adeguato margine di guadagno per le imprese, dovendosi ritenere che un utile trascurabile (come quello di specie), potrebbe portare l’affidatario dell’appalto ad una negligente esecuzione, oltre che, come di fatto avvenuto, determinare contenziosi.
L’interesse del committente pubblico a poter confidare sulla regolare esecuzione del servizio deve ritenersi prevalente su quello dell’impresa, frequentemente invocato in questi casi (e valorizzato dall’Amministrazione resistente anche nel caso in esame), ad eseguire comunque (ossia, anche in perdita o con utile aziendale eccessivamente scarso) un appalto, al fine di acquisire esperienza professionale e fatturato da utilizzare in vista della partecipazione a futuri appalti.
Tale assunto è espressione dei principi generali posti a garanzia della serietà dell’offerta e della corretta esecuzione del contratto, e trova applicazione anche a prescindere dal fatto che, nel caso di specie, la legge di gara non stabilisca una percentuale minima di utile di impresa, e, in termini più generali, non constino previsioni normative in tal senso.
[…]
Pertanto, in merito al procedimento di verifica dell’anomalia delle offerte, il giudice amministrativo può sindacare le valutazioni compiute dalla P.A. sotto il profilo della loro logicità e ragionevolezza e della congruità dell’istruttoria, sebbene non possa operare autonomamente la verifica della congruità dell’offerta presentata e delle sue singole voci, poiché, così facendo, invaderebbe una sfera propria della P.A., in esercizio di discrezionalità tecnica (cfr. ex multis Cons. Stato, sez. IV, n. 4206 del 2012).
Ciò posto, l’analisi della documentazione depositata dalle parti in atti e le deduzioni difensive dalle stesse proposte, in uno con l’esiguità dell’utile percepito dell’impresa aggiudicataria, dimostrano che la valutazione fornita dalla Stazione appaltante sia illogica e non ragionevole, sicchè vanno condivise le argomentazioni svolte dall’appellante in ordine alla insostenibilità delle singole voci dell’offerta, tenuto conto che sono stati esposti costi inferiori rispetto a quelli effettivi.
Riferimenti normativi: