A proposito del contratto e dell’asserita violazione del termine di “stand-still” di cui all’art. 32 comma 9 del D.Lgs. n. 50/2016 (breviter, Codice) una recentissima sentenza ha evidenziato quanto segue.
Innanzitutto, il TAR ha rilevato che la Determinazione a contrarre del Comune aveva dato atto espressamente che il contratto sarebbe stato stipulato ai sensi dell’art. 32 comma 14, senza l’osservanza del termine dilatorio di 35 giorni, ai sensi del comma 10 del medesimo articolo. La Stazione appaltante aveva quindi indicato che non avrebbe rispettato il comma 9 dell’art. 32, considerato che il successivo comma 10 ne esclude l’applicazione nel caso di affidamenti ai sensi dell’art. 36, comma 2, lettere a) e b) del Codice.
Inoltre, è risultato rilevante, ai fini della decisione, che l’appalto fosse stato indetto in applicazione dell’art. 63 del Codice, come richiamato dall’art. 1 comma 2 lettera “b” del DL n. 76/2020 convertito con legge n. 120/2020: per l’effetto, secondo il TAR, “l’affidamento di cui al comma 2 da ultimo citato si pone in alternatività con quello di cui all’art. 36 comma 2 del codice (si veda il comma 1 dell’art. 1 del DL n. 76/2020), sicché non è irragionevole ritenere che l’art. 32 comma 10 trova applicazione non solo per i casi dell’art. 36 ma anche per la procedura alternativa di cui all’art. 63, procedura scelta dal Comune” (in tal senso, TAR Milano, 22.10.2021 n. 2330).
2. – Maggiore pregnanza assume il sub-motivo con cui si deduce l’artificioso frazionamento temporale dell’appalto, con durata di soli venti mesi, onde rimanere al di sotto della soglia di rilevanza comunitaria (per soli 11.000 euro), in violazione di quanto prescritto dall’art. 35, comma 6, del d.lgs. n. 50 del 2016, mentre sarebbero bastati dieci giorni in più per superare la predetta soglia; peraltro appare incoerente una siffatta durata con la programmazione biennale, in quanto non è consentito che nello stesso ambito programmatorio possano coesistere due o più procedure per lo stesso servizio, ma “spezzettate”. Per l’appellante, se il bisogno è biennale, la durata del contratto deve essere almeno biennale; in ogni caso, ai sensi dell’art. 35, comma 6, del d.lgs. n. 50 del 2016, il frazionamento deve essere correlato a “ragioni oggettive”, che non sono invece esternate nella deliberazione a contrarre.
La fondatezza del motivo appare evidente proprio nella prospettiva da ultimo evidenziata. L’art. 35, comma 6, del d.lgs. n. 50 del 2016 dispone che «un appalto non può essere frazionato allo scopo di evitare l’applicazione delle norme del presente codice tranne nel caso in cui ragioni oggettive lo giustifichino». Nella fattispecie controversa la determinazione a contrarre non contiene alcuna esternazione delle ragioni idonee a giustificare il frazionamento dell’appalto su base temporale, limitandosi a rappresentare la necessità del rispetto del principio di rotazione e di garantire la continuità del servizio. In assenza di motivazione sulle ragioni del frazionamento, l’artificiosità del medesimo può essere dimostrata in via indiziaria; a tale dimostrazione concorre la prefissazione della durata del contratto a venti mesi, implicante il raggiungimento di un importo che “lambisce” la soglia comunitaria, non coerente con la programmazione biennale, e soprattutto con l’affermazione che «i servizi di vigilanza degli Uffici giudiziari sono necessari ed irrinunciabili in quanto funzionali al mantenimento di adeguati livelli di sicurezza pubblica ed all’ordinato svolgimento delle attività giudiziarie», sì da risultare illogica una durata limitata nel tempo, se non con lo scopo di non superare la soglia comunitaria, che appare dunque l’obiettivo, non dichiarato apertis verbis, ma evidentemente strumentale, che domina la determinazione gravata.
Infine, deve essere decisa la domanda cui la ricorrente principale chiede l’accertamento della invalidità o la declaratoria di inefficacia del contratto, nonché il risarcimento dei danni, preferibilmente in forma specifica, mediante l’aggiudicazione dell’appalto e il subentro nel contratto già stipulato.
Sebbene l’Adunanza plenaria numero 10 del 2020, precedentemente richiamata, abbia, incidentalmente, fatto riferimento alla nullità del contratto stipulato con un raggruppamento di imprese illegittimamente modificato nella propria composizione, la sorte del contratto stipulato sulla base di un’aggiudicazione annullata in sede giurisdizionale deve essere decisa sulla base dei poteri conferiti al giudice amministrativo dal codice del processo amministrativo.
Il codice di rito, agli articoli 121 e 122, prevede che il giudice amministrativo, allorquando annulla l’aggiudicazione, debba o possa dichiarare l’inefficacia del contratto di appalto.
Di conseguenza, non è ammissibile la declaratoria di nullità del contratto stipulato in forza di una aggiudicazione illegittima, eccedendo la declaratoria di nullità dai poteri conferiti al giudice dall’ordinamento processuale.
Nel caso di specie, quindi, occorre accertare se ricorrono i presupposti per la privazione di efficacia del contratto.
Al riguardo, è applicabile l’art. 121, comma 1, lettera c) essendo stata commessa, da parte della Stazione appaltante, una delle più gravi violazioni della legge sugli appalti pubblici, essendo stato stipulato il contratto il 1 febbraio 2021, il giorno stesso della comunicazione del provvedimento di aggiudicazione alla parte controinteressata all’aggiudicazione stessa, in tal modo impedendo all’attuale ricorrente principale di impugnare il provvedimento lesivo prima della stipulazione del contratto.
Tale violazione dell’art. 32 del Codice dei contratti pubblici, che al comma 9 vieta la stipulazione del contratto prima di trentacinque giorni dall’invio dell’ultima delle comunicazioni del provvedimento di aggiudicazione, impone la immeditata privazione di efficacia del contratto, con efficacia retroattiva, tenuto conto dell’interesse della ricorrente principale ad eseguire per intero la prestazione e della gravità della condotta della stazione appaltante che, ignorando il termine di stand still, ha privato la ricorrente principale della tutela cautelare.
D’altro canto, “le significative carenze nell’esecuzione di un precedente contratto di appalto o di concessione” rilevano se anche singolarmente costituiscano un grave illecito professionale ovvero se siano sintomatiche di persistenti carenze professionali, come riconosciuto anche al punto 2.2.1.2 delle Linee guida ANAC n. 6 del 2016-2017, laddove il successivo punto 2.2.1.3 delle stesse linee-guida comprende nell’elencazione delle significative carenze rilevanti, tra le altre, il singolo inadempimento di una obbligazione contrattuale o l’adozione di comportamenti scorretti o il ritardo nell’adempimento.
Tali conclusioni sono coerenti con l’interpretazione pregiudiziale del giudice eurounitario (Corte giust. UE, IV, 19 giugno 2019, C-41/18, Meca s.r.l.), in base alla quale la valutazione sulla sussistenza di gravi illeciti professionali spetta in via esclusiva alla stazione appaltante, costituendo una scelta ampiamente discrezionale; da ciò consegue che il sindacato del giudice amministrativo sulle relative motivazioni non può che limitarsi al riscontro “esterno” della non manifesta abnormità, contraddittorietà o contrarietà a norme imperative di legge nella valutazione degli elementi di fatto.
In questi termini, invero, “il giudizio su gravi illeciti professionali è espressione di ampia discrezionalità da parte della P.A. cui il legislatore ha voluto riconoscere un ampio margine di apprezzamento circa la sussistenza del requisito dell’affidabilità dell’appaltatore; ne consegue che il sindacato che il Giudice amministrativo è chiamato a compiere sulle motivazioni di tale apprezzamento deve essere mantenuto sul piano della “non pretestuosità” della valutazione degli elementi di fatto compiuta e non può pervenire ad evidenziare una mera “ non condivisibilità “ della valutazione stessa” (ex plurimis, Cons. Stato, IV, 8 ottobre 2020, n. 5867).
[…] D’altronde, anche i lamentati ritardi nelle attività preliminari alla stipula del contratto di appalto su cui attualmente si verte potevano in linea di principio giustificare, da sé soli, la revoca dell’aggiudicazione (ex multis, Cons. Stato, V, 29 luglio 2019, n. 5354): “è legittimo il provvedimento di revoca dell’aggiudicazione per notevoli ritardi nella produzione della documentazione di rito strumentale alla stipulazione del contratto”, così come “Il reiterato atteggiamento non cooperativo dell’aggiudicatario, obiettivamente idoneo a ritardare la stipula del contratto anche a fronte di servizi dichiaratamente connotati di urgenza”, in presenza di motivate ragioni di pubblico interesse.
Sono dunque persuasive le considerazioni rassegnate dall’amministrazione appellata, secondo cui la stazione appaltante avrebbe semplicemente operato un apprezzamento complessivo della condotta tenuta da -Omissis-, sia riguardo alla violazione degli obblighi preliminari alla stipulazione dei nuovi contratti, sia riguardo agli inadempimenti attuati nell’esecuzione dei contratti in corso, alla fine ritenendo tale condotta idonea ad incidere – in modo negativo – sull’affidabilità della aggiudicataria circa il corretto svolgimento delle prestazioni contrattuali.
[…]
D’altra parte è principio affermato – dal quale la Sezione non ritiene di discostarsi, nel caso di specie – quello per cui “la revoca fondata su comportamenti scorretti dell’Impresa che si sono manifestati successivamente all’aggiudicazione si connota per il fatto che l’Amministrazione non è tenuta in tali casi a soppesare l’affidamento maturato dal privato sul provvedimento a sé favorevole, proprio perché tale revoca trae origine dalla stessa condotta dell’aggiudicatario” (ex multis, Cons. Stato, V, 15 maggio 2019, n.3152).
La sentenza che annulla l’aggiudicazione e dichiara inefficace il contratto ai sensi dell’art. 122 Cod. proc. amm., anche quando, a seguito di apposita domanda della parte ricorrente, accerta la “possibilità di subentrare nel contratto”, non è mai costitutiva del vincolo contrattuale, né potrebbe esserlo. L’unica ipotesi conosciuta dall’ordinamento di sentenza che produca gli effetti del contratto non concluso è quella contemplata dall’art. 2932 cod. civ., la quale presuppone l’esistenza dell’obbligazione della parte convenuta in giudizio a concludere un contratto.
Le disposizioni del Codice dei contratti pubblici sulle fasi delle procedure di scelta del contraente da parte della pubblica amministrazione escludono che questa, anche quando sia addivenuta all’individuazione dell’aggiudicatario, sia obbligata a concludere il contratto con quest’ultimo.
Ai sensi dell’art. 32, comma 8, del d.lgs. n. 50 del 2016 (e dell’art. 11, comma 9, del d.lgs. n. 163 del 2006, applicabile ratione temporis), divenuta efficace l’aggiudicazione definitiva, la stazione appaltante si trova nell’alternativa tra addivenire alla stipulazione ovvero esercitare i poteri di autotutela “nei casi consentiti dalle norme vigenti”, vale a dire, sussistendone i presupposti, annullare ovvero revocare il provvedimento di aggiudicazione. Infatti “l’aggiudicazione non equivale ad accettazione dell’offerta”, come espressamente precisa l’art. 32, comma 6, del d.lgs. n. 50 del 2016 (e già precisava l’art. 11, comma 7, del d.lgs. n. 163 del 2006) appunto a significare che il provvedimento di aggiudicazione non è idoneo a far insorgere il rapporto obbligatorio tra le parti, né ad attribuire al privato aggiudicatario una posizione di diritto soggettivo, cui corrisponda un’obbligazione di concludere il contratto da adempiersi da parte della pubblica amministrazione (cfr. Cass. S.U., 11 gennaio 2011, n. 391). Di qui l’impossibilità per l’aggiudicatario di esperire l’azione costitutiva ex art. 2932 cod. civ.
Giova precisare – in risposta alle argomentazioni svolte dall’appellante nella memoria di replica – che l’impossibilità di esperire l’azione costitutiva ex art. 2932 cod. civ. è conseguenza più dell’assetto dato dal legislatore alla formazione del contratto ad evidenza pubblica (la cui stipulazione, ad un tempo conclude la fase pubblicistica di un percorso bifasico e dà luogo alla seconda fase che prosegue lungo i binari del rapporto di diritto privato), che di limiti propri della giurisdizione del giudice amministrativo. Non vi è dubbio infatti che la tecnica di tutela di cui all’art. 2932 cod. civ. sia praticabile dinanzi al giudice amministrativo, come riconosciuto sia dalla Corte di Cassazione (in diversi precedenti, tra cui Cass. S.U. 9 marzo 2015, n. 4683, richiamata dall’appellante), che univocamente dalla stessa giurisprudenza amministrativa (cfr. Cons. Stato, Ad. plen. n. 28/2012, nonché, di recente, tra le altre, Cons. Stato, IV, 14 giugno 2018, n. 3672 e id., 29 novembre 2018, n. 6793). Essa peraltro presuppone che si tratti di materia rientrante nell’ambito della giurisdizione esclusiva, laddove, venendo in rilievo una posizione di diritto soggettivo cui si contrappone l’obbligo inadempiuto della conclusione del contratto, non potrebbe che essere assicurata la stessa tutela riconosciuta dinanzi al giudice ordinario (tanto è vero che anche il precedente richiamato dall’appellante, di cui a Cass. S.U. n. 4683/15, attiene all’atto d’obbligo del privato per il trasferimento di aree alla p.a. nell’ambito di un accordo di urbanizzazione rientrante nella giurisdizione esclusiva ex art. 133, comma 1, lett. a, n. 2 Cod. proc.amm., su cui cfr. anche Cass. S.U. ord. 17 marzo 2017, n. 6962 e id., 30 maggio 2018, n. 13701).
Tuttavia la fattispecie oggetto della presente decisione è connotata dai seguenti caratteri propri:
– la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo si estende fino “alla dichiarazione di inefficacia del contratto a seguito di annullamento dell’aggiudicazione ed alle sanzioni alternative” (art. 133, comma 1, lett. e), n. 1, Cod. proc. amm.); la stipulazione del contratto con il ricorrente vittorioso vi è quindi estranea; essa è consequenziale alla dichiarazione di inefficacia del precedente contratto (tanto che la presuppone ex art. 124, comma 1, Cod. proc. amm.), ma è distinta ed ulteriore, tanto è vero che tutte le questioni attinenti al contenuto ed all’esecuzione del contratto rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario;
– comunque, la tutela ex art. 2932 cod. civ. non potrebbe essere esperita nemmeno dinanzi a quest’ultimo per la semplice ragione che, come già detto, nell’ordinamento non è configurabile un diritto soggettivo dell’aggiudicatario cui corrisponde un’obbligazione della pubblica amministrazione di stipulare il contratto.
Piuttosto, l’aggiudicazione, in quanto provvedimento conclusivo della fase pubblicistica della procedura di scelta del contraente, attribuisce a quest’ultimo la posizione di interesse legittimo pretensivo alla stipulazione del contratto. A fronte di tale posizione l’amministrazione ha di certo l’obbligo di provvedere (cfr. Cons. Stato, V, 17 marzo 2021, n. 2275, dove si è chiarito che, se l’aggiudicatario non intende sciogliersi dal vincolo, l’amministrazione deve stipulare il contratto o emettere comunque un provvedimento conclusivo del procedimento), ma, come detto, è “fatto salvo l’esercizio dei poteri di autotutela nei casi consentiti dalle norme vigenti” (art. 32, comma 8, del d.lgs. n. 50 del 2016).
Pertanto il giudice che annulla l’aggiudicazione definitiva, decidendo sulla domanda del ricorrente di conseguire l’aggiudicazione e di subentrare nel contratto, ai sensi degli artt. 122 e 124 Cod. proc. amm., non fa che accertare la posizione soggettiva qualificata del ricorrente, la quale, come correttamente esposto nella sentenza qui appellata, “non può che coincidere con la posizione di interesse legittimo alla stipulazione del contratto che normalmente consegue all’aggiudicazione della gara”; con la precisazione che, essendo l’efficacia dell’aggiudicazione subordinata alla verifica del possesso dei requisiti ex art. 32, comma 7, Cod. proc. amm., e spettando tale verifica alla stazione appaltante, si tratta di una posizione di interesse legittimo pretensivo a sua volta condizionata per legge (senza necessità che ciò sia statuito con la sentenza che ha annullato la precedente aggiudicazione) all’esito positivo della verifica del possesso dei requisiti in capo al ricorrente vittorioso.
In conclusione, la pronuncia giudiziale di declaratoria di inefficacia del contratto ex art. 122 Cod. proc. amm. certamente priva di effetti il contratto stipulato a seguito di aggiudicazione ritenuta illegittima, ma non ha efficacia costitutiva del contratto con il ricorrente vittorioso.
A siffatta conclusione non ostano le previsioni della c.d. direttiva ricorsi (Direttiva 66/2007/CE), richiamate dall’appellante nella memoria di replica, considerato che l’effettività della tutela è comunque assicurata dai rimedi esperibili contro i provvedimenti in autotutela adottati dalla pubblica amministrazione in luogo della stipulazione del contratto.
4.4.1. Perfettamente in linea con tale ricostruzione del quadro normativo di riferimento è la sentenza di questa Sezione, n. 3636/2018, favorevole alla DB Costruzioni, con la quale, annullata l’aggiudicazione della gara in favore della controinteressata C.S.E., si è “accolta la domanda dell’originaria ricorrente di subentro nel contratto stipulato (nelle more del presente giudizio d’appello) tra il Comune di San Giuliano di Puglia e la medesima controinteressata, previa dichiarazione di inefficacia dello stesso” e si è precisato di non ravvisare “alcuna circostanza ostativa ai sensi dell’art. 122 cod. proc. amm., tenuto in particolare conto che, come risulta dagli atti di causa, al momento della presente decisione la C.S.E. ha eseguito la sola progettazione”.
La statuizione con efficacia di giudicato è letteralmente e logicamente limitata alla dichiarazione di inefficacia del contratto (già stipulato) ed a quella “di accoglimento della domanda di subentro” nel contratto (da stipulare).
Come si è avuto modo di chiarire in giurisprudenza, siffatto “subentro” non va inteso in senso strettamente lessicale come successione nel contratto in essere con l’originaria aggiudicataria (tanto è vero che questo va dichiarato inefficace e perciò resta definitivamente caducato, con la decorrenza che il giudice fissa ex art. 122 Cod. proc. amm.); piuttosto esso sta ad indicare la situazione alternativa al rinnovo della gara (tanto è vero che presuppone l’accertamento che “il vizio dell’aggiudicazione non comporti l’obbligo di rinnovare la gara” ex art. 122 Cod. proc.amm.). Si tratta cioè di situazione che consente di consolidare la procedura di gara, prevedendo a favore del nuovo aggiudicatario “la possibilità di subentrare nel contratto”, in modo da sostituirsi all’originario vincitore della gara nella posizione di parte contraente con la stazione appaltante per l’esecuzione della prestazione indicata nell’offerta (cfr. Cons. Stato, V, 26 gennaio 2021, n. 786 e i precedenti ivi indicati). A tale scopo è però necessaria la stipulazione di un nuovo contratto, che si sostituisca a quello con la precedente aggiudicataria, caducato a seguito della dichiarazione di inefficacia.
La questione sollevata, anche se risolta in senso favorevole alla deducente, non può infatti condurre di per sé sola all’accoglimento della domanda risarcitoria.
Lo stesso dicasi con riferimento alla dedotta autonomia della domanda risarcitoria rispetto a quella impugnatoria, non potendosi così ritenere, a parere dell’appellante, rilevante la insussistente illegittimità dell’atto impugnato. E’ pur vero che la domanda di risarcimento del danno precontrattuale è sganciata dalla illegittimità dell’atto amministrativo, venendo in considerazione il comportamento scorretto della stazione appaltante, ma ancora una volta occorre rilevare che le ragioni a base del rigetto della domanda di risarcimento del danno sono ricollegate al difetto di comprova del danno solo astrattamente lamentato. La condotta della Stazione appaltante, così come emerge dagli atti di causa, consistente nella mancata definizione della procedura evidenziale per ragioni risalenti ad epoca risalente, è tale da integrare la responsabilità precontrattuale per lesione dell’interesse a non essere coinvolto in trattative inutili.
Secondo questo Consiglio (sentenza, sez. V, 2 febbraio 2018, n. 680), “a differenza della responsabilità da mancata aggiudicazione, la culpa in contrahendo della Pubblica amministrazione nelle procedure ad evidenza pubblica di affidamento di contratti costituisce fattispecie nella quale l’elemento soggettivo assume una sua specifica rilevanza, in correlazione con l’ulteriore elemento strutturale del contrapposto affidamento incolpevole del privato in ordine alla positiva conclusione delle trattative prenegoziali; infatti, i presupposti della responsabilità precontrattuale della Pubblica amministrazione consistono nell’affidamento ingenerato dal comportamento della stazione appaltante su tale esito positivo e nell’assenza di una giusta causa per l’inattesa interruzione delle trattative”. Orbene, la sussistenza di tali elementi costitutivi è stata appurata dal T.a.r. e le relative statuizioni sono ormai passate in giudicato, non essendo state contestate da parte appellata in sede incidentale.
Rimane da verificare se l’impresa danneggiata da tale comportamento era gravata da un preciso onere della prova in ordine al danno lamentato.
Sul punto, da reputare realmente decisivo della controversia, l’appellante deduce che non vi sarebbe un preciso onus probandi in capo al danneggiato, essendo la relativa quantificazione demandata a criteri equitativi, applicabili dal giudice adìto. E’ bene precisare che “mentre i danni da mancata aggiudicazione sono parametrati al c.d. interesse positivo e consistono nell’utile netto ritraibile dal contratto, oltre che nei pregiudizi di tipo curriculare e all’immagine commerciale della società, ingiustamente privata di una commessa pubblica, nel caso di responsabilità precontrattuale i danni sono limitati al solo interesse negativo, ravvisabile nel caso delle procedure ad evidenza pubblica nelle spese inutilmente sopportate per parteciparvi e nella perdita di occasioni di guadagno alternative” (cfr. Cons. Stato, sez. III, 2 aprile 2019, n. 2181). Invero, nel novero dei danni risarcibili, in casi siffatti, non rientra il ristoro della chance intesa come pura e semplice possibilità di conseguire i guadagni connessi all’esecuzione del contratto non stipulato (Cons. Stato, sez. V, 28 gennaio 2019, n. 697). Inoltre, secondo un orientamento seguito anche da questo Consiglio, “nell’ambito della responsabilità precontrattuale, il c.d. danno curriculare non è risarcibile, perché non attiene all’interesse negativo, ma, più propriamente, all’interesse positivo, derivando proprio dalla mancata esecuzione dell’appalto, non dall’inutilità della trattativa” (Cons. Stato, sez. VI, 1° febbraio 2013, n. 633). Ciò sarebbe già sufficiente per respingere l’appello in esame, atteso che l’appellante identifica le voci di danno, come precisate nel corso del giudizio di prime cure, nel danno da perdita di chance e nel danno curriculare (pagina 8, rigo 3 dell’appello), entrambi non risarcibili in caso di responsabilità precontrattuale, qualificata tale dallo stesso appellante.
[…]
Ad ogni modo, a prescindere dalla catalogazione delle voci di danno al fine di discernere tra quelle risarcibili o meno, va ribadito che in materia rileva il principio dell’onere della prova, di guisa che il privato deve provare sia il danno-evento (la lesione della libertà di autodeterminazione negoziale), sia il danno-conseguenza (le perdite economiche subite a causa delle scelte negoziali illecitamente condizionate), sia i relativi rapporti di causalità fra tali danni e la condotta scorretta che si imputa all’amministrazione (Ad. plen. n. 5/2018).
Ne consegue che anche le spese per la partecipazione alla gara devono essere documentate per conseguirne il risarcimento, dimostrazione che l’appellante non ha fornito. Del resto, rientra nell’orbita applicativa di tale onere processuale, contrariamente a quanto affermato dall’appellante, anche il danno curriculare, in quanto “la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato è ormai attestata nel ritenere necessaria la comprova specifica e circostanziata anche di tale profilo di danno (Cons. Stato, III, n. 1607 del 2020, cit.; V, n. 5803 del 2019, cit.; n. 5283 del 2019, cit.; III, 15 aprile 2019, n. 2435; V, 2 gennaio 2019, n. 14; 26 aprile 2018, n. 2527; 28 dicembre 2017, n.6135; 16 dicembre 2016, n. 5322)” (cfr. Cons. Stato, sez. V, 20 gennaio 2021, n. 632). Nel senso della soggezione anche del danno curriculare al principio dell’onere della prova si è espressa anche l’Adunanza plenaria (sentenza n. 2/2017), pur evidenziando che nel processo amministrativo trovi applicazione il c.d. “principio dispositivo temperato dal metodo acquisitivo”, in forza dell’art. 64 del c.p.a.
Il comma primo stabilisce infatti che le parti hanno l’onere di fornire soltanto “gli elementi di prova che sono nella loro disponibilità”, mentre il comma terzo attribuisce al giudice il potere di disporre, anche d’ufficio, i documenti utili ai fini della decisione che siano nella disponibilità dell’Amministrazione. E’ tuttavia opinione consolidata che il predetto temperamento trovi applicazione soltanto nei giudizi impugnatori, che, caratterizzandosi per la presenza dell’interesse pubblico e per la sua indisponibilità, denotano una forte asimmetria tra le parti in favore della p.A., asimmetria che è alla base di tale principio acquisitivo. Quanto esposto non opera nei giudizi risarcitori, né quando si tratti di controversie su diritti, in quanto si controverte su situazioni giuridiche rientranti nella “disponibilità” (ex art. 64 c.p.a.) del privato, senza tali “esigenze di riequilibrio”. 28Pertanto, poiché in ipotesi di danno curriculare la vertenza ha ad oggetto una pretesa risarcitoria da far valere innanzi al G.A. in sede esclusiva, il principio dispositivo troverà massima applicazione, con la conseguenza che dovrà essere il ricorrente a provare i fatti posti a fondamento della pretesa fatta valere in giudizio (art. 2697 cc), ossia il mancato incremento del curriculum.
Per avvio della procedura di gara deve intendersi la pubblicazione del bando di gara e non, invece, l’adozione di atti interni, quali la determinazione a contrarre.
Verso tale conclusione depone anzitutto l’art. 32, comma 2, d.lgs. n. 50 del 2016, il quale ancora alla fase antecedente l’avvio della gara l’atto con il quale le stazioni appaltanti decretano o determinano di contrarre in conformità ai propri ordinamenti.
Peraltro, anche la giurisprudenza ha osservato che “la determina a contrarre non ha una efficacia propriamente provvedimentale, non producendo effetti giuridici autonomi verso terzi quale atto presupposto suscettibile di autonoma impugnazione. In quanto precede l’avvio della procedura di affidamento, lo stesso ha, invece, natura più propriamente “endoprocedimentale” e, quindi, di regola è inidoneo a costituire in capo a terzi posizioni di interesse qualificato. La sua funzione, infatti, attiene essenzialmente alla corretta assunzione di impegni di spesa da parte dell’Amministrazione nell’ambito del controllo e della gestione delle risorse finanziarie dell’ente pubblico, esaurendo gli effetti all’interno dell’Amministrazione stessa (T.A.R. Abruzzo, L’Aquila, 26 maggio 2014 n. 485; T.A.R. Trentino-Alto Adige, Trento, 16 febbraio 2017 n. 53; T.A.R. Veneto Venezia, sez. III, 17.07.2017, n. 680)” (T.A.R. Campania, Napoli, Sez. V, 5.9.2018, n.5380).
Per completezza si rileva che anche il Comunicato del Presidente dell’ANAC del 20.5.2020 ha osservato che per “avvio della procedura” si intende la data di pubblicazione del bando di gara oppure, nel caso di procedure senza previa pubblicazione di bando, la data di invio della lettera di invito a presentare l’offerta. (in tal senso, da ultimo, T.A.R. Catanzaro, 30.03.2021 n. 713).
Va detto che in epoca recente, pur se in materia di dichiarazioni rese in occasione di una procedura di gara svolta ai sensi del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, ma esprimendo principi che ben possono attagliarsi al caso qui in esame, l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza 25 settembre 2020 n. 16, ha sviluppato le seguenti argomentazioni che il Collegio ritiene di riferire al caso di specie come segue:
– in via generale, “è risalente l’insegnamento filosofico secondo cui vero e falso non sono nelle cose ma nel pensiero e nondimeno dipendono dal rapporto di quest’ultimo con la realtà. In tanto una dichiarazione che esprima tale pensiero può dunque essere ritenuta falsa in quanto la realtà cui essa si riferisce sia in rerum natura”;
– premesso quanto sopra, le informazioni false o fuorvianti rese da un concorrente ben possono essere idonee ad influenzare le decisioni che verranno assunte da un’amministrazione che sta svolgendo una procedura selettiva;
– va però precisato che non è sufficiente che l’informazione sia falsa ma anche che la stessa sia diretta ed in grado di sviare l’amministrazione nell’adozione dei provvedimenti concernenti la procedura selettiva;
– a ciò va aggiunto che le informazioni sono strumentali rispetto ai provvedimenti di competenza dell’amministrazione relativamente alla procedura selettiva, i quali sono a loro volta emessi non solo sulla base dell’accertamento di presupposti di fatto ma anche di valutazioni di carattere giuridico, opinabili tanto per quest’ultima quanto per l’operatore economico che le abbia fornite. Ne consegue che, in presenza di un margine di apprezzamento discrezionale, la demarcazione tra informazione contraria al vero e informazione ad essa non rispondente ma comunque in grado di sviare la valutazione della stazione appaltante diviene da un lato difficile, con rischi di aggravio della procedura di gara e di proliferazione del contenzioso ad essa relativo e dall’altro lato irrilevante rispetto al disvalore della fattispecie, consistente nella comune attitudine di entrambe le informazioni a sviare l’operato della medesima amministrazione;
– da tutto quanto sopra discende che la considerazione della dichiarazione in termini omissivi o non veritieri, per poter condurre all’esclusione dalla selezione (ovvero, come nel caso di specie, laddove la scoperta della inadeguatezza della dichiarazione rispetto alle regole di partecipazione alla selezione sia successiva all’adozione del provvedimento conclusivo e quindi conduca al suo annullamento in autotutela), deve essere ricondotta dall’amministrazione nell’ambito di un contraddittorio tra l’amministrazione procedente e il concorrente, solo all’esito del quale l’amministrazione potrà stabilire se l’informazione è effettivamente falsa o fuorviante, se inoltre la stessa era in grado di sviare le proprie valutazioni ed infine se il comportamento tenuto dal concorrente abbia inciso in senso negativo sulla sua integrità o affidabilità partecipativa. Del pari l’amministrazione dovrà stabilire allo stesso scopo se quest’ultimo ha omesso di fornire informazioni rilevanti, sia perché previste dalla legge o dalla normativa della selezione, sia perché evidentemente in grado di incidere sul giudizio di integrità ed affidabilità.
[…]
13. – A questo punto, dunque, si impone lo sviluppo di ulteriori considerazioni in merito ai due istituti, apparentemente confliggenti tra di loro, dell’annullamento in autotutela e in particolare della previsione di cui all’art. 21-nonies, comma 2-bis, l. 241/1990, grazie al quale sarebbe possibile superare il limite temporale di diciotto mesi, con riferimento all’annullamento degli atti di rilascio di autorizzazione e di attribuzione di vantaggi economici (di cui al comma 1 del suddetto articolo), solo in epoca successiva al passaggio in cosa giudicata della sentenza penale di condanna di colui che ha ottenuto l’autorizzazione o il beneficio dichiarando il falso e del diverso istituto della decadenza dal beneficio, di cui all’art. 75 d.P.R. 445/2000, a mente del quale (per la parte che qui interessa non modificata dall’art. 264, comma 2, lett. a), n. 2), d.l.. 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla l. 17 luglio 2020, n. 77, che vi ha introdotto un nuovo comma 1-bis) “Fermo restando quanto previsto dall’articolo 76, qualora dal controllo di cui all’articolo 71 emerga la non veridicità del contenuto della dichiarazione, il dichiarante decade dai benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non veritiera”.
La Sezione ha già chiarito che (cfr., tra le ultime, Cons. Stato, Sez. VI, 31 dicembre 2019 n. 8920) è ferma in giurisprudenza, per i più vari casi d’esercizio di una funzione amministrativa ampliativa delle facoltà giuridiche del privato e connessa ad autodichiarazioni rese da quest’ultimo (cfr., per tutte, Cons. Stato, Sez. V, 12 giugno 2019 n. 3940, 3 febbraio 2016 n. 404 e 24 luglio 2014 n. 3934), la regola secondo cui, in base a detto art. 75, la non veridicità di quanto descritto nella dichiarazione sostitutiva presentata implica la decadenza dai benefici ottenuti con il provvedimento conseguente a tale dichiarazione, senza che, per l’applicazione di detta norma, abbia rilievo la condizione soggettiva del dichiarante (rispetto alla quale è irrilevante l’accertamento della falsità degli atti in forza di una sentenza penale definitiva di condanna), facendo invece leva sul principio di autoresponsabilità.
14. – Da ciò discende che (come ha chiarito l’Adunanza plenaria nella richiamata sentenza n. 16/2020), anche a voler seguire la prospettazione del TAR in tema d’autotutela discrezionale e di perentorietà del termine per esercitarla, laddove la fallace dichiarazione abbia sortito un effetto rilevante ai fini del rilascio del provvedimento amministrativo, è del pari congruo che il termine “ragionevole” (massimo di 18 mesi) decorra solo dal momento in cui la pubblica amministrazione abbia appreso tale non veridicità (cfr., ancora per tutte, seppure in materia edilizia ma con principi sovrapponibili pienamente al caso in esame, Cons. Stato, Ad. pl., 17 ottobre 2017 n. 8).
Tenendo conto dei principi espressi dall’Adunanza plenaria nelle due sentenze appena richiamate, si può dunque affermare che l’avere omesso di dichiarare o l’avere dichiarato in modo fuorviante ovvero non veritiero elementi indispensabili a permettere la formazione della volontà dell’amministrazione che si coagula nel provvedimento ampliativo, laddove tale volontà sia negli esiti coartata e comunque inquinata dalla non rispondenza al vero degli elementi di fatto e di diritto dichiarati dalla parte interessata, è lo stesso soggetto interessato, con il proprio comportamento, ad indurre l’amministrazione a rimuovere in autotutela il provvedimento caratterizzato da patologie rilevanti e quindi a provocare la decadenza dal beneficio ingiustamente acquisito, senza che possa essere garantita la sopravvivenza dello stesso in base ad un mero elemento di fatto quale il trascorrere del termine di 18 mesi.
Una lettura costituzionalmente orientata della norma di cui all’art. 21-nonies, comma 1, l. 241/1990, tenuto conto della portata degli artt. 3 e 97 Cost., conduce ad affermare che:
– il termine massimo di 18 mesi assegnato dal legislatore nel 2015 all’amministrazione per ritirare dal mondo giuridico, con effetto retroattivo, il provvedimento di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici è stato introdotto al fine di garantire il rispetto del principio del legittimo affidamento che trova il suo fondamento, nell’ordinamento unionale, nei principi del Trattato dell’unione europea e, in quello nazionale, nei principi dell’art. 97 Cost. nonché nelle disposizioni recate dall’art. 1, comma 1, l. 241/1990;
– sotto il versante del diritto eurounitario (nell’ambito della giurisprudenza della Corte di giustizia UE), il principio di tutela del legittimo affidamento impone che una situazione di vantaggio, assicurata ad un privato da un atto specifico e concreto dell’autorità amministrativa, non possa essere successivamente rimossa, salvo che non sia strettamente necessario per l’interesse pubblico (e fermo in ogni caso l’indennizzo della posizione acquisita).
– nello stesso tempo però (cfr. Cons. stato, Sez. III, 8 luglio 2020 n. 4392), affinché un affidamento sia legittimo è necessario un requisito oggettivo, che coincide con la necessità che il vantaggio sia chiaramente attribuito da un atto all’uopo rivolto e che sia decorso un arco temporale tale da ingenerare l’aspettativa del suo consolidamento e un requisito soggettivo, che coincide con la buona fede non colposa del destinatario del vantaggio (l’affidamento non è quindi legittimo ove chi lo invoca versi in una situazione di dolo o colpa);
– sulla spinta dei principi unionali il nostro legislatore ha dunque introdotto un limite massimo per l’adozione di atto di ritiro di provvedimenti ampliativi della sfera giuridica del destinatario, sempre che costui sia parte passiva e incolpevole nella provocazione della patologia che, ai sensi dell’art. 21-octies, comma 1, l. 241/1990, affligge l’atto da ritirarsi, sicché la responsabilità nella adozione dell’atto illegittimo deve totalmente ascriversi all’amministrazione;
– diverso è il caso in cui il profilo patologico che affligge l’atto e che ne impone, al ricorrere dei presupposti, la rimozione, sia ascrivibile al comportamento mantenuto dalla parte che ha ottenuto l’adozione in suo favore dell’atto autorizzatorio ovvero di attribuzione di vantaggi economici;
– ancora una volta, in considerazione dell’art. 97 Cost e dell’art. 3 Cost., quest’ultimo con riferimento agli altri soggetti che pur potendo aspirare al rilascio del provvedimento ampliativo della sfera giuridica dell’interessato hanno dovuto accettare che il provvedimento favorevole fosse assegnato ad altri, l’ordinamento (sia quello unionale che quello nazionale) non può tollerare che il vantaggio sia conseguito attraverso un comportamento non corretto che abbia indotto in errore l’amministrazione procedente, sviando in modo decisivo la valutazione dei presupposti fissati dalla legge ai fini del rilascio del provvedimento attributivo di quel vantaggio, pregiudicando (anche solo potenzialmente) le aspirazioni di altri (…).
Pertanto, la surriproposta lettura costituzionalmente orientata dell’art. 21-nonies, comma 1, l. 241/1990, porta ad affermare che il limite temporale dei 18 mesi, introdotto nel 2015, in ossequio al principio del legittimo affidamento con riguardo alla posizione di colui che ha ottenuto un provvedimento autorizzatorio o di attribuzione di vantaggi economici, è dedicato dal legislatore e, quindi, trova applicazione, solo se il comportamento della parte interessata, nel corso del procedimento o successivamente all’adozione dell’atto, non abbia indotto in errore l’amministrazione distorcendo la realtà fattuale oppure determinando una non veritiera percezione della realtà o della sussistenza dei presupposti richiesti dalla legge e se grazie a tale comportamento l’amministrazione si sia erroneamente determinata (a suo tempo) a rilasciare il provvedimento favorevole. Nel caso contrario, non potendo l’ordinamento tollerare lo sviamento del pubblico interesse imputabile alla prospettazione della parte interessata, non può trovare applicazione il limite temporale di 18 mesi oltre il quale è impedita la rimozione dell’atto ampliativo della sfera giuridica del destinatario (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 17 maggio 2019 n. 3192, 24 aprile 2019 n. 2645 e 14 giugno 2017).
15. – Per completezza merita ancora di essere ricordato come la condivisibile giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha chiarito come il superamento dei limiti temporali previsti per l’esercizio del potere di annullamento in autotutela (sanciti dall’art. 21-nonies, comma 1, l. 241/1990, e già ivi espressi attraverso il canone del “termine ragionevole”) in presenza di una falsità dichiarativa o documentale presupponga la valenza obiettivamente determinante di siffatta falsa rappresentazione, tanto che è proprio sulla base di essa che il provvedimento ampliativo è stato adottato (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 27 giugno 2018 n. 3940).
Facendo richiamo all’art. 23 del disciplinare per effetto del quale “l’aggiudicazione diventa efficace, ai sensi dell’art. 32, comma 7 del Codice, all’esito positivo della verifica del possesso dei requisiti prescritti. In caso di esito negativo delle verifiche, la stazione appaltante procederà alla revoca dell’aggiudicazione”. Ne viene, secondo il ragionamento illustrato in sentenza, che la verifica dei requisiti può essere ultimata anche dopo l’aggiudicazione. Pertanto, il fatto che l’efficacia dell’aggiudicazione soggiaccia alla condizione sospensiva del positivo esito di dette attività, non costituisce motivo di illegittimità dell’azione amministrativa.
La ricorrente segnala la contraddittorietà di questa soluzione rispetto al dettato dell’art. 23 del disciplinare, nella parte in cui dispone che “la stazione appaltante, previa verifica ed approvazione della proposta di aggiudicazione ai sensi degli artt. 32, comma 5 e 33, comma 1 del Codice, aggiudica l’appalto”.
Il motivo è infondato.
Come correttamente evidenziato dal primo giudice, l’art. 23 distingue l’approvazione della proposta di aggiudicazione (alla quale fa riferimento il passaggio richiamato dalla parte appellante) dall’aggiudicazione vera e propria, i cui effetti possono essere sospensivamente condizionati al buon esito della verifica del possesso dei requisiti prescritti. Di seguito alla previsione richiamata dalla parte appellante, l’art. 23 dispone, infatti, che “l’aggiudicazione diventa efficace, ai sensi dell’art. 32, comma 7 del Codice, all’esito positivo della verifica del possesso dei requisiti prescritti”. Dunque, non è affatto corretto sostenere che la stazione appaltante era tenuta ad effettuare tutti i controlli e le verifiche disposte dalla normativa di settore prima di aggiudicare il servizio; ed il passaggio dell’art. 23 richiamato in tal senso dall’appellante è inconferente ai fini che qui rilevano, perché riferito ad un diverso momento procedimentale (l’approvazione della proposta di aggiudicazione).
L’offerta del contraente privato è vincolante per il solo periodo indicato dal bando ovvero per 180 giorni dalla scadenza del termine per la sua presentazione (come si ricava dall’art. 32, comma 4, d.lgs. n. 50 del 2016, e che, per questo, vale come proposta irrevocabile ex art. 1329 cod. civ., cfr. Tar Lazio, sez. III, 29 marzo 2013, n. 3227), l’eventuale sua dichiarazione di scioglimento (con le conseguenze di cui a Cons. giust. amm. Sicilia, sez. giuris., 4 settembre 2015, n. 588) non produce effetti diretti sugli atti di gara, che restano definitivamente cristallizzati al momento dell’aggiudicazione, salvo sopravvenute determinazioni dell’amministrazione.
Con riferimento all’istituto dell’affidamento diretto, disciplinato nell’art. 36, comma 2, del D.Lgs. 50/2016 e come modificato dall’art. 1 della L. 120/2020, ferme le soglie per forniture e servizi e per lavori e fermo il possesso dei requisiti di legge in capo agli operatori, si domanda: 1) se debba interpretarsi come facoltà di affidare “sine causa” ad una determinata impresa senza necessità di confronto concorrenziale con altri operatori; ovvero 2) come affidamento ad un determinato operatore, motivandone le ragioni della scelta: ad esempio, necessità ed urgenza, motivi di privativa commerciale, ed, in via generale, i motivi della procedura negoziata senza bando di cui all’art. 63 del D. Lgs. 50/2016; ovvero 3) se debba intendersi come modalità, meno formale rispetto alle altre procedure, che postula, comunque, una consultazione di mercato in maniera sostanziale attraverso richieste di preventivi, sondaggi, ecc. ?
RISPOSTA
Con riferimento a quanto richiesto, si rappresenta che l’affidamento diretto previsto dall’art. 1, comma 2 della L. n. 120/2020 in deroga all’art. 36, comma 2, del D. Lgs. 50/2016 non presuppone una particolare motivazione nè lo svolgimento di indagini di mercato.
Il legislatore, infatti, per appalti di modico importo ha previsto tali modalità di affidamento semplificate e più “snelle” al fine di addivenire ad affidamenti in tempi rapidi. L’eventuale confronto dei preventivi di spesa forniti da due o più operatori economici rappresenta comunque una best practice.
Resta fermo che occorre procedere nel rispetto dei principi di cui all’art. 30 del D. Lgs. 50/2016.
Si ricorda, inoltre, che l’amministrazione può procedere all’affidamento diretto tramite determina in forma semplificata ai sensi dell’art. 32, comma 2 del D.Lgs. 50/2016. Tale atto conterrà, in modo semplificato, l’oggetto dell’affidamento, l’importo, il fornitore, le ragioni della scelta del fornitore, il possesso da parte sua dei requisiti di carattere generale, nonché il possesso dei requisiti tecnico-professionali, ove richiesti.
E’ stato recentemente confermato con riferimento alla determina a contrarre semplificata che il comma 2 dell’art. 32 del decreto legislativo n. 50/2016 stabilisce: “Prima dell’avvio delle procedure di affidamento dei contratti pubblici, le stazioni appaltanti, in conformità ai propri ordinamenti, decretano o determinano di contrarre, individuando gli elementi essenziali del contratto e i criteri di selezione degli operatori economici e delle offerte. Nella procedura di cui all’articolo 36, comma 2, lettere a) e b), la stazione appaltante può procedere ad affidamento diretto tramite determina a contrarre, o atto equivalente, che contenga, in modo semplificato, l’oggetto dell’affidamento, l’importo, il fornitore, le ragioni della scelta del fornitore, il possesso da parte sua dei requisiti di carattere generale, nonché il possesso dei requisiti tecnico-professionali, ove richiesti”. A sua volta l’ANAC, nelle Linee guida n. 4, di attuazione del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, recanti “Procedure per l’affidamento dei contratti pubblici di importo inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria, indagini di mercato e formazione e gestione degli elenchi di operatori” a tal proposito specifica che “Le procedure semplificate di cui all’articolo 36 del Codice dei contratti pubblici prendono avvio con la determina a contrarre o con atto ad essa equivalente, contenente, tra l’altro, l’indicazione della procedura che si vuole seguire con una sintetica indicazione delle ragioni. Il contenuto del predetto atto può essere semplificato, per i contratti di importo inferiore a 40.000,00 euro, nell’affidamento diretto o nell’amministrazione diretta di lavori”. La corretta interpretazione sistematica delle predette norme porterebbe quindi a ritenere che, per le procedure semplificate di cui all’art. 36 del decreto legislativo n. 50/2016, è necessaria e sufficiente “la sintetica indicazione delle ragioni”. È quindi sufficiente che la lettera d’invito indichi tutti gli elementi elencati nel citato art. 32, come avvenuto nella fattispecie in esame: nel caso concreto, trattandosi di affidamenti di importo inferiore a € 40.000,00 di cui all’art. 36, comma 2, lett. a) del decreto legislativo n. 50/2016, la lettera d’invito indica, infatti, in maniera specifica “l’oggetto dell’affidamento, l’importo, il fornitore, le ragioni della scelta del fornitore, il possesso da parte sua dei requisiti di carattere generale, nonché il possesso dei requisiti tecnico-professionali”. In base a quanto espressamente stabilito dall’art. 32, comma 2, del decreto legislativo n. 50/2016, come interpretato dalle citate linee guida dell’ANAC, pertanto, già la lettera d’invito con le specifiche indicazioni richieste, sarebbe sufficiente, nel caso di specie, a soddisfare le esigenze a cui è finalizzata la delibera a contrarre “semplificata”. […] L’art. 32, comma 2, del decreto legislativo n. 50/2016 stabilisce, infatti, che nelle gare sotto soglia, come quella in esame, la stazione appaltante può procedere ad affidamento diretto tramite determina a contrarre, o atto equivalente, ad oggetto semplificato. La disposizione in commento non indica alcuna formalità della determina a contrarre, anzi, il riferimento all’atto “equivalente ad oggetto semplificato” rende evidente l’irrilevanza delle forme e della specificità dei contenuti (cfr. TAR Bari, 10.12.2020 n. 1604).
Nelle gare pubbliche, la decisione della Pubblica amministrazione di procedere alla revoca dell’aggiudicazione provvisoria non è da classificare come attività di secondo grado (diversamente dal ritiro dell’aggiudicazione definitiva), atteso che, nei confronti di tale determinazione, l’aggiudicatario provvisorio vanta solo un’aspettativa non qualificata o di mero fatto alla conclusione del procedimento: pertanto, l’assenza di una posizione di affidamento in capo all’aggiudicatario provvisorio, meritevole di tutela qualificata, attenua l’onere motivazionale facente carico alla Pubblica amministrazione, in occasione del ritiro dell’aggiudicazione provvisoria, anche con riferimento alla indicazione dell’interesse pubblico giustificativo dell’atto di ritiro.» (Cons. Stato Sez. III, 6/8/2019, n. 5597; idem in Cons. Stato Sez. V, 11/10/2018, n. 5863; T.A.R. Lazio Roma Sez. III quater, 11/3/2020, n. 3142). […] Il provvedimento risulta, dunque, sufficientemente motivato, mentre non può essere ravvisata alcuna carenza istruttoria, anche in considerazione del fatto che “la revoca della proposta di aggiudicazione non è soggetta ad un particolare aggravio motivazionale rispetto al contenuto minimo prescritto dall’art. 3 della L. n. 241 del 1990 ed all’obbligo di comparazione tra l’interesse pubblico e quello privato per difetto di una situazione di affidamento degna di tutela, non trovando applicazione, quindi, la disciplina dettata dagli art. 21-quinquies e 21-nonies della L. n. 241 del 1990” (T.A.R. Abruzzo L’Aquila Sez. I, 21/9/2020, n. 320) . Quanto ai profili partecipativi, il Collegio ritiene che il Comune abbia legittimamente provveduto alla revoca senza alcuna comunicazione all’odierna ricorrente, in conformità all’orientamento giurisprudenziale secondo cui “ai fini del ritiro della proposta di aggiudicazione, non vi è obbligo di avviso di avvio del procedimento” (T.A.R. Abruzzo n. 320/2020).
8. Osserva infatti il collegio che per giurisprudenza costante “la procedura di affidamento di un contratto pubblico è soggetta alla normativa vigente alla data di pubblicazione del bando, in conformità al principio tempus regit actum ed alla natura del bando di gara, quale norma speciale della procedura che regola cui non solo le imprese partecipanti, ma anche l’amministrazione non può sottrarsi” (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 7 giugno 2016, n. 2433)” (Consiglio di Stato, sent. n. 2222/2017). 9. Ne consegue che, essendo state ammesse a partecipare alla procedura de qua nove concorrenti, la disciplina applicabile in materia di anomalia dell’offerta coincide con quella cronologicamente vigente al momento di invio, in data 10 agosto 2020, delle lettere di invito, ossia con quella di cui all’art. 1, comma 3, del decreto legge n. 76/2020, entrato in vigore il 16 luglio 2020, a tenore del quale “Nel caso di aggiudicazione con il criterio del prezzo più basso, le stazioni appaltanti procedono all’esclusione automatica dalla gara delle offerte che presentano una percentuale di ribasso pari o superiore alla soglia di anomalia anche qualora il numero delle offerte ammesse sia pari o superiore a cinque”. 10. Non può infatti condividersi la prospettazione dell’amministrazione resistente per la quale ai fini dell’applicazione della disciplina di cui all’art. 97, comma 8, del d.lgs. n. 50/2016, vigente prima dell’entrata in vigore del decreto legge n. 76/2020, avrebbe dovuto farsi riferimento alle determine a contrarre n. 59 del 6 maggio 2020 e n. 82 in data 8 luglio 2020, avendo la giurisprudenza definitivamente chiarito che la determina a contrarre ha natura endoprocediemntale, ex se inidonea a fondare in capo ai terzi posizioni di interesse qualificato. 11. Né può ritenersi, come paventato da R.U.P. con nota in data 8 ottobre 2020, che il servizio di progettazione oggetto di gara potrebbe comunque essere conferito allo Studio odierno aggiudicatario per affidamento diretto senza esclusione automatica delle offerte sotto soglia, avendo al riguardo la giurisprudenza chiarito che la scelta tra procedura negoziata e affidamento diretto non è libera, dovendo essa essere guidata da specifiche ragioni che inducono a ritenere non praticabile la via ordinaria, che è quella dell’evidenza pubblica, soprattutto laddove, come nel caso di specie, l’amministrazione ha intrapreso una precisa strada per l’affidamento del servizio de qua (cfr., T.A.R. Calabria, Catanzaro, sez. I, 31 ottobre 2017, n. 1632). 12. Va da ultimo rilevato che, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa comunale, il decreto legge n. 76/2020 non contiene norme derogatorie al decreto legge n. 189/2016 in tema di “Interventi urgenti in favore delle popolazioni colpite dagli eventi sismici del 2016”, nella parte in cui statuisce, all’art. 2-bis, che “l’affidamento degli incarichi di progettazione e dei servizi di architettura e ingegneria ed altri servizi tecnici… avviene mediante procedure negoziate previa consultazione di almeno dieci soggetti…..utilizzando il criterio di aggiudicazione del prezzo più basso con le modalità previste dall’articolo 97, commi 2, 2-bis e 2-ter, del citato codice di cui al decreto legislativo n. 50 del 2016”, non operando detta disposizione alcun riferimento all’art. 97, comma 8, del codice dei contratti (“… l’esclusione automatica non opera quando il numero delle offerte ammesse è inferiore a dieci”), espressamente derogato dall’art. 1, comma 3, del decreto legge 76/2020.
QUESITO Il D.L. 76/2020 “Semplificazioni” convertito con modificazioni dalla legge 120/2020, prevede all’ultimo periodo del comma 2 dell’art. 1: “L’avviso sui risultati della procedura di affidamento, la cui pubblicazione nel caso di cui alla lettera a) non è obbligatoria per affidamenti inferiori ad euro 40.000, contiene anche l’indicazione dei soggetti invitati.” Considerato che la medesima legge ha aumentato la soglia dell’affidamento diretto a euro 75.000, la norma citata deve interpretarsi nel senso che è obbligatorio pubblicare un avviso sul risultato di ciascuna procedura di affidamento diretto per importi compresi da 40.000 a 75.000 euro? Nel caso di risposta affermativa, quali contenuti deve avere detto avviso? E’ sufficiente pubblicare la determina di aggiudicazione?
RISPOSTA Con riferimento a quanto richiesto si ritiene che la risposta alla prima domanda sia affermativa. Quanto ai contenuti di detto avviso, si rappresenta che lo stesso potrà essere sostituito dalla determina in forma semplificata di cui all’art. 32, comma 2 del d.lgs. 50/2016, e potrà avere dunque i medesimi contenuti, ossia: l’oggetto dell’affidamento, l’importo, il fornitore, le ragioni della scelta del fornitore, il possesso da parte sua dei requisiti di carattere generale, nonché il possesso dei requisiti tecnico-professionali, ove richiesti. In aggiunta ai suindicati contenuti, detto avviso (o la determina a contrarre in forma semplificata) dovrà riportare l’indicazione dei soggetti invitati, così come previsto dall’art. 1. Comma 2, della Legge 11 settembre 2020 n. 120.
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